2018 “Tutto il mondo è paese”, di Andrea Morini

immagine di copertina del catalogo della mostra 2018 “Tutto il mondo è paese”, di Andrea Morini

“Tutto il mondo è paese”
fotografie di Andrea Morini

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E’ stato con enorme piacere che il Circolo Fotografico “Renato Brozzi” ha presentato la mostra fotografica dedicata a Andrea Morini, appassionato fotoamatore reggiano e colonna del nostro circolo.

L’idea alla base della nostra iniziativa è sempre stata quella di proporre autori in una alternanza tra fotografi affermati e giovani promesse da portare al pubblico.

L’esposizione del 2018 ha voluto rendere merito ad uno dei soci più promettenti del nostro sodalizio,  che in questi anni ha dimostrato grande qualità fotografica e profonda sensibilità verso le figure umane e a pieno merito riteniamo si inserisca nella linea guida della nostra proposta culturale di questi ultimi anni e che si fonda sul principio di “La fotografia come documento”.

La mostra ha proposto al pubblico 36 stampe in bianconero realizzate in in giro per il mondo e che testimoniano quanto nella varietà umana vi sia una sequenzialità di gesti e situazioni che uniscono persone distanti tra loro.

A corredo della esposizione, come nostra tradizione, è stato realizzato il Catalogo della mostra, che si inserisce nella nostra collana “Territorio” , in vendita.

 

TUTTO IL MONDO E’ PAESE
di Matteo Sandrini

La fotografia, straordinario mezzo espressivo figlio della modernità, offre sia la possibilità di testimoniare registrando fedelmente la realtà, sia quella di esprimersi manifestando i diversi stati dell’animo.

Sebbene non si tratti di opzioni necessariamente alternative Andrea, nella sua scelta artistica, propende decisamente per questo secondo approccio senza però avocare a sé il ruolo di giudice o censore.

L’organizzazione del percorso espositivo, giocato sul raffronto di coppie di soggetti diversi tra loro, ma caratterizzati da situazioni accomunabili, ben rispecchia il titolo della mostra mutuato da un noto proverbio “tutto il mondo è paese” che vuole stigmatizzare come ovunque si vada certi comportamenti siano sempre gli stessi.

La fotografia di Andrea, che ha come costante la presenza umana, è pregna di espliciti significati ed è al contempo piacevole all’occhio e rivelatrice. Il suo approccio, di tipo maturo, resta fedele alla poetica “dell’istante decisivo”, e il tentativo di coniugare formalismo e umanesimo, non è esente da contaminazioni, retaggio della conoscenza dei grandi maestri. 

A ben guardare infatti, nella difficoltà del disabile che sale le scale sul ponte a Venezia rivedo la stessa sofferenza degli anziani fotografati da Berengo-Gardin lungo le scalinate della Senna; allo stesso modo la fatica del carrettiere di Anversa fotografato da Roiter nel 1959, ritorna nell’immagine del facchino dell’albergo ritratto da Andrea, così come la bandiera americana utilizzata  come indumento dal senza tetto a New York richiama alla mente la foto scattata da Cartier-Bresson il 4 luglio 1947, festa dell’ Indipendence Day…

Ritengo importante questo rimando al passato perché se l’autore ha collocato i suoi soggetti in una dimensione priva di limiti spaziali, i riferimenti citati dilatano il confine in una dimensione spazio-temporale,  come a sottolineare che stati d’animo e sentimenti non hanno né cittadinanza né età.

Oggi come allora infatti, queste immagini non si propongono di suggerire facili risposte, semmai invitano l’osservatore a porsi sempre nuove domande.

TUTTO IL MONDO E’ PAESE – LA GLOBALIZZAZIONE DELLA CONDIZIONE UMANA
di Marco Freschi

Andrea sceglie un proverbio tra i più noti per intitolare la sua personale ricerca sul tema della replicabilità della condizione umana, oltre i limiti geografici. Un’analisi che centra la riflessione sul fatto che in un mondo dove si infrangono le distanze, ma si moltiplicano le modalità di connessione fra individui, si globalizzano i mercati e le dinamiche sociali, ma si complicano e parzializzano le possibilità di attingere ai vantaggi che tale globalizzazione dovrebbe potenzialmente portare alla collettività, alla fine, in ultima analisi, a conti fatti … l’umanità alla prese con la propria quotidianità compie i medesimi gesti o – meno volontariamente – si ritrova alle prese con gli stessi problemi e le medesime contraddizioni, che ci si trovi da un lato o dall’altro del Pianeta.

Il proverbio solitamente viene sfoderato per sottolineare la circostanza del ritrovarsi, lontani da casa, di fronte ad una situazione conosciuta, spettatori di un modo di risolvere una contingenza già sperimentata, assistere alla manifestazione di un istinto umano che non avremmo problema a riconoscere come la prima reazione che anche noi attueremmo se ci ritrovassimo nelle medesime condizioni, nel nostro giardino. Di solito il detto si applica a quei contesti che apparentemente non farebbero pensare al verificarsi di tale ripetizione. Un déjà vu  del nostro istinto. L’impulso ancestrale, connaturato in noi stessi, che ci spinge ad adottare le medesime soluzioni comportamentali, tecniche, architettoniche o urbanistiche, emozionali.

Il constatare la medesima modalità con la quale viene esposta la merce al banco in un mercato in Perù o in Spagna, che si tratti di frutta o pesce, è solo la prima istanza formale alla quale il lavoro di Andrea ti chiede di fare caso. Soffermandosi maggiormente sulle immagini ci si accorge che il nesso profondo che mette in relazione la coppia selezionata dall’autore risiede nell’atteggiamento delle due commesse: una concentrazione quasi rassegnata sul loro lavoro che ne accumuna le vite. Come se si potesse affermare che il loro volto sarebbe stato diverso nella postura, nella profondità dello sguardo e nei segni sugli zigomi se avessero esercitato una professione diversa. Di converso è come se si potesse affermare che le due ragazze risultano affini perché le circostanze delle loro vite le hanno accumunate nel lavoro al banco di vendita, nell’abitudine a tenere d’occhio la merce, a trattare il prezzo con i fornitori ed i clienti, a scacciare i seccatori, ad eludere le battute.

Tutto il mondo è paese [ … “ma qui è troppo paese”] ricorderà a qualcuno anche la celeberrima battuta del Principe De Curtis, la quale puntualizzava, riferendosi alla città di Napoli nel dopoguerra, come la dimensione (culturale in questo caso) del “paese” impedisse al mondo di essere un luogo migliore di quello che è ovvero sottolineava l’accezione negativa del concetto di paese come entità refrattaria al progresso intellettuale. Le coppie di immagini che descrivono i passeggeri in mezzi pubblici nei loro asettici spostamenti o delle persone che sembrano riposarsi negli spazi pubblici della città intenti a consultare le proprie device, piuttosto che gli attempati signori in attesa di qualcosa parcheggiati all’uscita del supermercato o al tavolo di una biblioteca, rappresentano drammaticamente il medesimo contesto, stavolta globalizzato, della scena di totò. Che sia a New York o a Senigallia, l’umanità di fronte alla disponibilità di una tecnologia che ha nell’accesso alla conoscenza in suo potenziale più profondo, il cui affacciarsi era impensabile solo vent’anni fa, si riduce ad impiegare la medesima fondamentalmente quale surrogato della relazione diretta. Nascondendosi dietro alibi ai cristalli liquidi ci si autorizza allora ad ignorarsi, a non confrontarsi posticipando indefinitamente a luoghi virtuali i potenziali scambi di opinione, quando non si sdogana l’insulto. 

Tutto il mondo è paese sale agli onori della cronaca di queste settimane a seguito della censura, perché tale è il nome con il quale la vicenda si chiama, del prodotto televisivo dedicato alla vicenda di Riace. Una vicenda che può far ricordare a 70 anni di distanza il dilemma umano – talvolta afferente al rispetto delle leggi o meno – di chi si trova di fronte alla richiesta di aiuto da parte di negletti, disperati, sradicati. Le immagini n. 11 e 12, scattate a Parma e a Senigallia, colpiscono in quanto dopo alcuni istanti di osservazione la percezione di quello che l’autore ritiene il soggetto principale transita dal mendicante al suo intorno. Una nuvola centrifugata di indifferenza avvolgente una barba grigia appoggiata su uno scatolone di cartone ovvero la proposizione di una differente modalità di guardare il futuro: incerta, dimessa e senza prospettiva quella del disperato; proiettata in avanti, sprezzante, oscurata da un paio di lenti solari quella dell’elegante passante.

Un ruolo predominante poi, Andrea riserva ad una categoria particolare di negletti: i senzatetto. Figure apotropaiche che, a differenza dei mendicanti sopra descritti, caratterizzati da una sorta di aurea testimoniante una dignità perduta paiono essere costretti dalle circostanze a implorare aiuto (talvolta dichiarandolo chiaramente negli slogan con i quali esercitano l’accattonaggio), questi ultimi invece sembrano, per un’inquietante deviazione della nostra psiche o quale conseguenza di un placebo della nostra forma mentis puritana, il frutto di una scelta umana consapevole. Umanoidi che per libera preferenza hanno deciso di occupare il margine della società civile, dimorando su panchine o sotto qualche portale, presidiano beffardamente i loro cartoni atteggiandosi quasi in modo provocatorio rispetto alla civiltà urbanizzata e consumista che non ha saputo offrire loro una possibilità o un modello di integrazione. Così l’homeless newyorkese, che involto nella stessa bandiera stellata che in altri ambiti di solito viene associata alla promessa onirica del sogno americano si rattrappisce in una posa plastica, nella quale le sembianze umane abdicano in un volume informe e senza volto. Alla stessa degenerazione corporale pare convergano i personaggi delle fotografie n. 27 e 28, scattate a Firenze e Barcellona: barboni che sbeffeggiano il cittadino inscenando un macabro numero di mimica sincronizzata, nel quale uomo e bestia si avvitano su se stessi. Si compenetrano fra loro, in una sorta di composizione armonica contorsionistica di vite sciatte che tuttavia, seppur testimoniante il fallimento nella partita della ricerca di un posto “onorevole” nella vita “normale”, è portatrice dell’inquietante evidenza che eleva un cane, rispetto ad un esponente della stessa specie, al compito di capire e condividere senza pregiudizi un’esistenza umana sventurata. Anche qui, l’osservazione più attenta delle immagini porta l’osservatore a spostarsi con l’attenzione sull’intorno della composizione, per scoprire l’inquietante contraddizione per cui mentre all’accattone non si può che riservare indifferenza, al barbone, grazie al fatto che questo non ti chiede nulla o non fa nulla per metterti in imbarazzo con la coscienza o forse più semplicemente grazie alla sua più appariscente condotta di (non) vita, si riconosce un certo interesse, meritevole almeno di un post o di una story instagram. Se nell’immagine del senzatetto alloggiato con i sui tre cani ai piedi della vetrina della caixa catalana, con tanto di vassoietto per il caffè che dialoga con l’invito alla medesima bevanda riportato sul cristallo, i passanti appassionati alla scena vengono traditi dal riflesso sulla vetrina stessa, nella fotografia del barbone accomodato sulla panchina è la presenza in contrasto della movida di sfondo a contestualizzare la scena e il piccione che contrappunta il disgraziato, quasi ponendosi nella medesima postura, ma rivolto dal lato opposto, consente all’immagine di raggiungere un equilibrio carico di instabili rimandi.

Per la chiusura del lavoro Andrea sceglie di riportare la riflessione sulle prerogative più basiche dell’essere umano, forse anche per alleggerire il carico di apprensioni che fino a poco prima marcavano lo scorrere delle immagini, anche se inevitabilmente finisce per riporre nella scelta la solita inclinazione al cogliere le situazioni contraddittorie. Ancora una volta la coppia di scene viaggia lungo l’asse transatlantico, la direttrice dell’occidentalità, lungo la quale il momento del matrimonio rimane il momento della celebrazione. Se si officia il sentimento che più caratterizza la condizione umana – l’amore – e che più di ogni altro è dunque soggetto alle cure più attente quanto al suo preservarsi e dato tuttavia che si hanno sempre meno certezze sulla sua conservazione quale sentimento, allora tutte le energie si concentreranno sulla conservazione della sua celebrazione. Le immagini che l’autore propone infatti rappresentano due coppie non perfettamente complici nel compito assegnatole dal fotografo ufficiale del matrimonio, che spariscono nella composizione per lasciare spazio alla stucchevolezza della costruzione della celebrazione. Le immagini non ritraggono due innamorati che si sposano, ma l’attuare di una finzione – il reportage fotografico del matrimonio – che ha come scopo quello di creare un rimando grafico (e post-prodotto), le fotografie appunto, ad un amore ideale, frutto della nostra cultura ed educazione, che tuttavia costituisce un’occasione che si presta troppo bene alla sua cristallizzazione formale per lasciarsela sfuggire.

Biografia dell’autore

Andrea Morini nasce a Reggio Emilia nel 1975 e da all’ora vive a S. Polo d’Enza sempre in provincia di Reggio Emilia.
Si appassiona alla fotografia nel 2014, per merito di un’altra passione che coltiva, infatti si trova a voler fotografare tutta una serie di oggetti, ma si accorge ben presto che, nonostante svariati tentativi, le foto da lui realizzate non si avvicinano nemmeno lontanamente a quelle di riferimento che aveva visto e preso come esempio.
Così entra in possesso di un manuale di tecnica base, e incomincia a capire che la Fotografia è tutta un’altra cosa rispetto a quello che aveva sempre immaginato…
Da lì il passo è breve; comincia a frequentare un corso base di Fotografia, poi un’altro ancora, finendo per iscriversi, nel 2015, al Circolo Fotografico Renato Brozzi” di Traversetolo (Parma).

Tutto il Mondo è Paese
di Andrea Morini

Questo lavoro non nasce da un progetto ben preciso.
Non c’è stata un’idea che ho poi cercato di realizzare andando a trovare delle particolari situazioni.
E’ stata una constatazione, che mi si è materializzata davanti agli occhi, riguardando le fotografie che ho fatto negli anni… che ho fatto nei viaggi… che ho fatto nel Mondo.
Mi sono preso una “licenza poetica” nell’attribuire il titolo a questo lavoro.
L’espressione popolare “tutto il mondo è paese”, infatti, sottintende che l’umanità ha molto in comune; che siamo in fondo simili negli istinti e nei cinque sensi; che le differenze derivano dall’ambiente e dall’educazione ricevuta.
Ed è l’intento di questa mostra evidenziare queste similitudini, tuttavia ho selezionato anche immagini che vanno in netto contrasto tra di loro…
Per sottolineare che siamo tutti simili, anche nelle diversità.

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