2010 “Linea Emilia”, fotografie di Marco Freschi

Immagine di copertina del catalogo

“Linea Emilia”
fotografie di Marco Freschi

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Presentazione
di Paolo Barbaro

Incontro Marco Freschi al Bar Illy di Sant’ Ilario, all’ ombra del grattacielo di Asnago-Vender che scandisce con il suo profilo una delle stazioni nella teoria di centri grandi e piccoli lungo la Via Emilia. Un nodo attraversato da generazioni di fotografi attenti alla veduta urbana, al racconto fotografico del territorio emiliano e non solo,   sempre più frequentemente a partire dalla fondamentale rassegna Esplorazioni della Via Emilia (1985) in avanti. Anche Marco Freschi presenta una serie di immagini che riguardano il territorio emiliano: il titolo e l’ organizzazione della ricerca sembrano alludere a quelle esperienze (Linea Emilia, difficile non pensare alle esperienze di Linea di Confine, a Rubiera), a un viaggio che partendo “da casa” si dirama per ambiti tematici (il paesaggio naturale, il paesaggio antropizzato, le linee di trasporto, la montagna, la collina, la pianura), ma presto è evidente che intenzioni e risultati sono altra cosa rispetto alle esperienze della nuova fotografia a colori degli anni Settanta-Ottanta (Ghirri, Guidi, Chiaramonte, Cresci, Barbieri…), che tracciava una “nuova topografia” nella fotografia italiana della seconda metà del secolo scorso.

Qualcosa spiega la storia del giovane autore. Inizia a fotografare nel 2000, a Canossa, istigato dall’esempio dello zio Giuseppe, collezionista di attrezzature storiche, con intense passioni, politiche e fotografiche. E’ proprio lo zio ad introdurlo alle diapositive, a mettergli in mano camere e materiali del bianco e nero, a scatenare in lui una simmetrica passione, di fatto inattuale: nel 2000 i giochi tra fotografia digitale e analogica si profilano sulla via della chiusura, con una netta prevalenza della prima, almeno nell’ area della pratica diffusa. Marco così si volge a tecniche e risultati percorsi da tanta fotografia degli anni tra i Cinquanta e Sessanta: le attente stesure di camera oscura, la pellicola all’ infrarosso, l’ uso di filtri fatti da sè. Al Circolo Fotografico Renato Brozzi di Traversetolo ha poi occasione di altri incontri, la disponibilità di una camera oscura per procedere in modo autonomo. Si trova insomma ad abitare un’ area della fotografia italiana, quella reggiana, che ha i suoi maestri e una sua storia articolata entro cui sembra individuare alcuni riferimenti: Stanislao Farri e il suo senso della luce e della composizione grafica, Vasco Ascolini e la trasfigurazione metafisica dei luoghi, la montagna di Giuseppe Codazzi, memore di Ansel Adams.

Fotografa con assiduità. Il primo lavoro di rilievo è l’ allestimento di una serie di foto per arredare Casa Italia in occasione delle Olimpiadi a Pechino; scegliendo nel proprio archivio prepara la serie che intitola Italia esibita e Italia segreta con immagini dei monumenti conosciuti ma anche (ed è il versante che sembra preparare Linea Emilia) immagini di quello che connette i monumenti: i percorsi, il paesaggio quotidiano, gli episodi minori.

Così Linea Emilia è una serie che investe il territorio, quella parte delle provincia di Parma e Reggio Emilia che l’autore definisce “territori matildici”. Dalle colline tra Reggio e Parma, attraversando il territorio rurale e dalla montagna verso la collina, poi la pianura.

Il progetto si stende su otto anni di riprese. Il lavoro di Marco Freschi del resto è paziente, fatto di frequenti ritorni, attese della giusta condizione atmosferica e della giusta composizione delle luci tra le nuvole, dell’ istante in cui l’ equilibrio tra quanto accade in cielo e l’ immagine della terra è raggiunto.

La prima foto, scattata nel 2002 nella zona di Cadrazzole, indica subito una direzione precisa: impiega una tecnica particolare che trasfigura la visione (con un velatino molto pesante quasi la oscura, riprende con negativo sensibile all’ infrarosso) : accenna il sentiero quasi invisibile, altera i toni della vegetazione sbiancata, un tronco spezzato somiglia ad una rovina, ad un castello diroccato. La prospettiva è scritta alla scansione dei piani tonali, con un giapponismo caro ai fotografi pittorialisti da camera Work in avanti. Vi è una foto precedente della stessa zona, molto diversa: classicamente composta come veduta, una canonica proporzione della quota dell’ orizzonte, le nuvole a riequilibrare tutto; tra questa inquadratura e quella successiva vi è un forte stacco, come succedesse qualcosa nello sguardo del fotografo che così racconta, indicando quella più classica: “questa è l’immagine, il luogo che mi ha fatto fermare, iniziare a riprendere, poi nello stesso posto vedo altre cose, vado più in profondità”. Il viaggio inizia quindi subito con un lavoro “sul motivo” insistito, fatto di ritorni frequenti, di possibilità moltiplicate nel raccontare i luoghi consueti. Si capisce che siamo agli antipodi della “insistenza dello sguardo” (titolo di una mostra e di un volume curato anni fa da Paolo Costantini e Italo Zannier) che qualificherebbe la scuola emiliana recente di fotografia documentaria: evidente è anzi l’ astenersi da ogni implicazione con lo “stile documentario”.

I cieli neri, una pineta dove gli alberi divengono architetture in rovina come in certi guazzi di Max Ernst, il bosco e i campi dietro casa che somigliano a raffigurazioni di altri mondi: vengono in mente le stupende copertine di Karel Thole per la collana Urania. Poi vedute ampie, anche quasi topografiche: il castello di Bianello contro la pianura, compresso e dalla prospettiva atmosferica attenuata dalla particolare resa dell’ infrarosso (e forse anche le immagini di Vittorino Rosati sono responsabili di alcune scelte), il tono tenuto romanticamente basso; il castello di Matilde, le nuvole tracciate come in un Magritte, corpose come fossero modellate in gesso; a Rossenella sopra la torre sbiancata il cielo cupo e le nubi temporalesche affondano nel nero chiuso.

Le Cascate del Lavacchiello a Ligonchio (siamo ora in alta montagna) riprendono la linea pittorialista, giapponizzante; a volte l’ acqua è resa come superficie vaporosa per via di pose lunghe, come nelle vecchie e lente fotografie al collodio: rallentamento imposto dalla bassa sensibilità delle emulsioni per infrarosso rivolto in vantaggio dal fotografo.

Le città, la crescita urbana, sono quasi completamente schivate, stazioni del percorso evitate o accennate in una dimensione fuori dal tempo storico. A Gualtieri la piazza rinascimentale sembra schiacciata dal cielo, l’ edificio ne è quasi cancellato, come se il costruito fosse destinato ad essere riassorbito nel naturale, nel nero, nel buio, forse nella notte. Il Palazzo della Pilotta a Parma viene inquadrato di scorcio verticale, per geometrie diagonali e volumi tagliati di bianchi e neri netti. La luce, il forte contrasto riducono  ancora lo spazio a geometria secca sotto i portici di Via d’ Azeglio. La fuga del porticato è così tenuta in una dimensione ai limiti dell’ astratto: raramente la prospettiva centrale prende l’aspetto della costruzione scenica (accade nell’ infilata del viale d’ ingresso della Villa Re, località Fontanili), le figure rare sono indicatori minimi di presenza e abitabilità. Villa Re è un “Sito di Interesse Comunitario”, tutelato per preservare una memoria, anche nella dimensione di rovina che Marco Freschi riprende volta per volta come architettura intera, salvata in una sacca di resistenza ai percorsi veloci, come maschera dalle occhiaie vuote; e poi girando attorno, si reinventano le visioni spostandosi magari verso il paesaggio classico, orizzontalmente disteso, dove la grana sempre evidente mima la vibrazione della pittura divisionista, delle vedute postimpressioniste. Un soffitto crollato, le travi segnano grafiche contro il cielo, come un omaggio al maestro Stanislao Farri.

Un tema classicamente prospettico come la linea ferroviaria è risolto in termini più atmosferici che spaziali: anche nel caso della Stazione di Bibbiano, questa volta ripresa in medio formato e proposta classicamente in prospetto frontale, la grana spessa e il tono alterato indicano che non ci si preoccupa della leggibilità e dell’ evidenza, sempre più luministica che topografica.

Il casello di Piazzola, dove la ferrovia è solo accennata e ancora affondata nel nero, è uno di quei relitti nel paesaggio che Marco Freschi insegue e a cui ritorna, fino a quello (l’ erba candida invade i binari) a Codemondo, in capo al mondo, dove si arriva da via dell’ Inferno.

A volte, nella collina, il paesaggio coltivato, paesaggio agrario, prende l’ aria della terra sofferente delle superfici informali di Mario Giacomelli, riferimento autoriale riconfermato da un’ immagine dei dintorni di Lesignano Bagni: un tronco crollato occupa un terzo dell’ inquadratura con le radici strappate, poi piccole figure sopra questo gigante, salti di dimensione che smentiscono la prospettiva ottica, la messa in scena, a favore del dispiegarsi di piccoli eventi disseminati nello spazio figurativo, come in un Brueghel. Ma un traliccio dell’ alta tensione ci riconduce al presente.

Biografia

Marco Freschi nasce e vive a Canossa in provincia di Reggio Emilia e si avvicina alla ricerca fotografica nel 2000 con l’iscrizione al Circolo Fotografico “Renato Brozzi” di Traversetolo (Parma). E’ a partire da questo momento che trova la sua espressione artistica grazie al continuo confronto con altri appassionati dell’arte. Pur manifestando il rigore formale e l’impegno che contraddistingue i grandi fotografi, per l’autore la fotografia resta sempre una passione a cui dedicare il tempo concesso dal suo lavoro in campo edile.

In particolare nei suoi lunghi e costanti lavori di ricerca, prevalentemente rivolti al paesaggio e alla documentazione delle realtà locali della sua terra, Marco Freschi subisce il fascino della ripresa con pellicola in bianco e nero e della sua efficace capacità di astrazione della realtà : il lavoro artigianale in camera oscura e le tecniche di stampa tradizionali seguono sempre con eterna pazienza le fasi di ripresa.

Le tappe della sua crescita sono contraddistinte da un progressivo rigore formale,  tramite un utilizzo sapiente della luce alla quale sempre si rivolge, scegliendo spesso come perno delle sue riprese lo spettro dell’infrarosso.

In questi anni l’autore si è distinto non solo all’interno di alcune collettive, ma soprattutto nella mostra Italia esibita e Italia segreta allestita nel 2008 a Pechino, all’interno dello spazio di “Casa Italia” in occasione delle ultime Olimpiadi.

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