“Il respiro delle nuvole”
fotografie di Stanislao Farri
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Stanislao Farri . Una vita per gli altri
di Paolo Barbaro
L’ALTRA REALTA’
di Jacopo Ferrari del C.F. “Renato Brozzi”
Vasco Ascolini ci ha spiegato il contesto all’interno del quale si è formato come artista e come persona, un mondo difficile e arido per chi come lui cercava disperatamente la propria strada all’interno di un panorama culturale povero di occasioni. C’erano poche cose, pochi libri, pochi luoghi che potessero placare la sete di sapere e di conoscere. Ma proprio il fatto che questi luoghi fossero in numero esiguo, li rendeva unici e importanti per le persone che li frequentavano: l’istituto d’arte, il circolo fotografico, l’università, il teatro , ci si aggrappava a questi con tutte le forze, li si rispettava.
Oggi questo contesto è diverso? Le possibilità sono maggiori? Sicuramente sì, ma, come si suol dire, non tutto è oro quel che luccica…
I mezzi di comunicazione, internet, l’editoria se da un lato ci hanno messo in condizione di sapere di più, per altro senza darci gli strumenti per poterlo fare realmente, svelano, ad uno sguardo più approfondito, l’altra faccia della medaglia, e cioè il fatto di distrarci da quel che ci riguarda più da vicino e impoverire progressivamente la nostra capacità di vedere e interpretare la realtà: un limite particolarmente grave se parliamo di fotografia.
Per esempio, il fatto che oggi sia possibile spostarsi con pochi soldi da una parte all’altra del continente, invece di essere un fatto esclusivamente positivo, ha finito per generare un consumismo dei luoghi e non una maggiore conoscenza degli stessi. Inoltre, questa continua ricerca spasmodica di qualcosa che non abbiamo e che identifichiamo come migliore tout court, ci pone in una perenne condizione di menefreghismo e ingiustificata insoddisfazione per quel che invece abbiamo.
Secondo questo atteggiamento di superficialità e questa dilatazione, intesa come diluizione e frammentazione dell’esperienza diretta della realtà e dei valori che la compongono, lavori di lunga ricerca condotti con pazienza costante nell’ arco di un cinquantennio come “Dentro l’argine” di Stanislao Farri, non avrebbero visto la luce.
E credo che la stessa sorte sarebbe toccata a Vasco Ascolini e al suo particolare modo di osservare il mondo. La sua visione, che a primo sguardo sembra essere così intensamente distaccata dalla realtà, si lega invece a doppio filo all’esperienza, ai luoghi che Ascolini ha frequentato nel corso della sua vita: quelle ombre dei musei parigini sono le quinte del teatro Valli di Reggio Emilia, quelle sculture i suoi attori. Quelle ombre, ricondotte dall’autore stesso ad una dimensione onirica, drammatica e fantastica, non si trovano ovunque, sono le ombre della nostra storia, dei nostri paesi, dei siti archeologici e dei musei italiani e le ombre sono sempre la proiezione di qualcosa di reale, perciò sono sempre diverse, se diversi sono gli oggetti proiettati e la luce che li colpisce.
Spero che questa diversità continui ad esistere e che molti come Vasco Ascolini abbiano voglia di apprezzarla e di interpretarla, ma soprattutto spero che non cessi mai la voglia di stupirsi di fronte ad essa.
UN BUIO CHE ABBRACCIA
di Fred Licht (Traduzione dall’inglese di Sandro Parmiggiani)
Le immagini di Ascolini hanno lo strano effetto di un déjà-vu. Esse sono sorprendentemente nuove e tuttavia allo stesso tempo sono indimenticabilmente familiari. Queste fotografie richiamano alla mente sensazioni, emozioni e stati d’animo che ci hanno toccato profondamente ma che erano troppo fugaci perché le cogliessimo in tutta la loro importanza.
Il talento di Ascolini è difficile da definire giacché non si tratta solo di un talento per la fotografia ma di un talento per scoprire le necessità umane, i bisogni umani. Malgrado tutto il sorprendente carattere delle sue fotografie, esse sono immediatamente persuasive e mai bizzarre. Goya frequentemente sottotitolava alcune delle sue più impressionanti stampe di massacri del tempo di guerra con le parole “Questo io vidi”. Ascolini può dire la stessa cosa delle sue trasfigurazioni della realtà. Anche se noi stessi non abbiamo mai visto ciò che lui ha visto, senza indugio prestiamo fede a quello che ha scoperto – e che non abbiamo mai percepito – nel mondo che ci circonda. Ecco uno dei pochi fotografi che io conosca che riesce a fare sì che la sua macchina registri ciò che lui ha visto… visioni che l’obiettivo della sua macchina fotografica non avrebbe mai potuto osservare.
La sua opera è stata talvolta paragonata ai dipinti “metafisici” di de Chirico e il confronto è illuminante. Tuttavia c’è una chiara differenza tra i due artisti. Le fotografie di Ascolini non sono mai inquietanti, mai presagio di una qualche invisibile minaccia come lo sono i migliori dipinti di de Chirico. Persino nelle sue fotografie più enigmatiche Ascolini sempre fornisce un elemento di una realtà riconoscibile che noi possiamo condividere con lui, la quale agisce come un’ancora di salvezza mentre noi ci immergiamo nella poesia di Ascolini che volge il fatto in leggenda.
Un altro aspetto del suo talento che io trovo straordinariamente attraente è che lui mai ci impone le sue intuizioni. Al contrario, ci lascia partecipare al suo viaggio di scoperta. Rifiuta ciò che in tedesco viene chiamato Effekthascherei (andare a caccia di effetti stravolgenti). Sebbene l’impatto delle sue immagini sia forte, si ha sempre la sensazione che piuttosto che “inventare” la composizione, al fine di conseguire un effetto calcolato in precedenza, sia l’immagine che abbia incontrato lui a metà strada. Egli semplicemente risponde con grande sensibilità a ciò che la realtà che sta di fronte alla sua macchina fotografica gli offre spontaneamente.
Egualmente caratteristica del suo stile (che non è affatto uno “stile” ma un modo di rispondere agli stimoli visivi) è la sua capacità di cogliere l’essenza del tutto mettendo a fuoco un piccolo dettaglio. Il suo scatto del profilo illuminato di una acquasantiera a Mantova ci permette di comprendere la maestosità della chiesa che resta invisibile.
Se ho evitato di parlare della sua maniera di trattare il buio, la caratteristica più saliente del suo linguaggio, è perché si tratta dell’aspetto più difficile del genio di Ascolini da mettere in parole. Da un punto di vista puramente estetico la sua abilità nel fare sì che gli elementi neri delle sue composizioni rimangano dentro lo spazio e nell’atmosfera invece di appiattirsi in superfici nere è di per sé sorprendente. Ciò che è ancora più ammirevole è la gamma di emozioni, sensazioni, reazioni che lui è capace di suscitare attraverso l’uso di quello che è essenzialmente un vuoto scuro. I suoi toni bui assumono la qualità sonora del timbro di un organo che vibri nell’aria dopo che lo strumento stesso si è fatto silente. Ascolini ha il potere di eludere la nostra primitiva paura del buio. Le sue ombre non corrodono mai. Abbracciano.
L’ALTRA REALTA’
di Andrea del C.F. “Renato Brozzi”
“L’altra realtà”.
Perché ho proposto questo titolo per la mostra che vi state per accingere ad ammirare?
Perché è stata la sensazione che ho provato la prima volta che ho avuto la fortuna di osservare le immagini che la compongono. Mentre le scorrevo nella tranquillità del mio salotto, ero fortemente incuriosito da una sequenza di fotografie che mi raccontava di un modo diverso di scoprire il mondo, un forma fortemente personale, che non raccontava di semplici statue, bensì di protagonisti che, per soddisfare i nostri occhi, si ponevano ora in posa, ora continuando nelle loro attività.
Pare strano immaginare come vivi dei semplici blocchi di pietra lavorati dalle sapienti mani di scultori? Sicuramente, ma aspettate di conoscerete ballerini in scena, giovani che giocano a rincorrersi nei prati, amanti che si sfiorano, mani magiche e figure che si nascondono nella zona buia di un museo o che da lì escono per scoprire chi è venuto per osservarli.
Perdetevi negli occhi monocromatici che vi guardano, nella loro forza, nella loro curiosità e voglia di dire “eccomi, sono qui”; scorgete figure loquaci che confabulano oltre le siepi e seguitele nel loro peregrinare da un piedistallo all’altro; ogni tanto fermatevi con loro che, sdraiate, osservano il mondo scorrergli attorno e il tempo chiudersi in un tramonto.
Da piccolo lessi di una bimba che attraversando uno specchio scopriva un mondo fantastico.
Da grande ho scoperto che quello specchio è tutto attorno a noi.
Basta solo volerlo vedere.
Biografia
VASCO ASCOLINI
Nasce a Reggio Emilia il 10 maggio 1937 ed inizia a fotografare nel 1965.
In occasione della sua entrata, nel 1964, all’Istituto Statale d’Arte di Reggio Emilia in qualità di impiegato amministrativo, i colleghi insegnanti, in particolare quelli addetti alle materie artistiche, che gli sono coetanei, lo accolgono nella loro cercia amicale e stimolano in lui il desiderio di dedicarsi ad una attività creativa.
Nel 1965 decide di diventare fotografo. Materia che no si insegna nella scuola e quindi, per questo apprendistato, gli saranno preziosi i consiglio di un gruppo di fotografi reggiani ormai da anni attivi in questo campo.
Stanislao Farri, Giuliano Menozzi, Tullio Tagliavini e Vittorino Rosati gli saranno generosi maestri.
Nel 1973 diventa fotografo ufficiale del Teatro Municipale della sua città natale; la collaborazione dura una quindicina d’anni. Questa attività è coronata nel 1985 da una esposizione al Lincoln Center di New York.
Nel 1988 Ascolini conosce Ernst Hans Gombrich, che scrive un testo per la sua mostra Aosta Metafisica. Questo apprezzamento è determinante per aprirgli le porte di numerosi musei in Europa e negli Stati Uniti.
A partire dal 1990, Ascolini opera con sempre maggiore frequenza ed intensità in Francia. Jean-Luc Monterosso e Joel Brard gli suggeriscono di partecipare ai “Rencontres internationales de la photographie d’Arles”, dove si recherà regolarmente ogni anno. Lì ha l’opportunità di avere numerosi contatti e di stringere relazioni con altri fotografi, storici e teorici dell’arte.
Nel 1990 Michèle Moutashar, direttrice del Musée Réattu di Arles, gli affida l’incarico di fotografare la città; il lavoro viene presentato l’anno dopo ai “Rencontres” d’Arles, in un’esposizione personale intitolata “Fixé sur l’éternité”. Riceve nell’occasione la medaglia della città di Arles.
La crescente notorietà gli fa ottenere numerose committenze. A Parigi, gli vengono successivamente affidati gli incarichi di fotografare gli interni e gli esterni del Musée Carnavalet, le sculture del Musée Rodin (sedi di Parigi e di Meudon) e del Musée du Louvre, il Parc de Saint-Cloud, il Parc Royal e i Jardins des Tuileries, l’Ecole Nationale des Beaux Arts. Realizza pure cicli fotografici al Musée Réattu di Arles, al castello e ai giardini di Versailles, all’ Abbaye de Roseland e alla città vecchia di Nizza (incarico della Municipalité di Nizza), al Chàteau de Chàteaudun. In Italia, riceve committenze dai Comuni di Aosta e di San Giovanni in Persiceto (Bologna), dalla Soprintendenza Archeologica di Pompei e dal Comune di Mantova.
Nel 2000 Vasco Ascolini viene nominato “Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres” della Repubblica di Francia.
Nella città natale di Reggio Emilia, Vasco Ascolini anima un gruppo di fotografi; viene spesso invitato da università in Italia e in Francia per presentare il proprio lavoro. Ha partecipato a simposi sulla fotografia, in particolare a “Il sentimento delle rovine” all’Università d’Aix-en-Provence.
Sue importanti mostre personali si sono tenute, a partire dal 1983, in musei e spazi espositivi d’Italia, Francia, Stati Uniti d’America, Canada, Finlandia, Portogallo, Grecia, Svizzera, Egitto; ha pure partecipato a varie mostre collettive in molti paesi, e le sue fotografie sono presenti in numerose collezioni pubbliche e private.
All’opera di Vasco Ascolini sono dedicate due tesi di laurea.
La sua poetica nasce dalla sedimentazione in lui di letture comunque legate all’immaginario di autori come Borges, Melville, Conrad, Stevenson e, ancora prima, Emilio Salgari e Luigi Motta.
La possibilità di consultare e guardare i libri, anche rari, conservati nell’Istituto d’Arte, farà maturare in lui il senso della percezione visiva.
Influiranno sulla sua cifra distintiva, sia del periodo della fotografia di teatro, sia del genere successivo – legato ai beni culturali delle città, ai luoghi museali e dell’arte – le letture di Kant e Burke sulla categoria del “sublime”.
La sua scelta sarà di una cifra “al nero”, dove il concetto di “vuoto” e “infinito” trovano spesso una attenzione paticolare. Resta legato al principio che la “fotografia” deve più fare immaginare che mostrare